Faccio un commento alla serie di storielle metropolitane che girano in questi giorni sui soliti bamboccioni: questa volta pare non avrebbero voglia di andare a lavorare presso qualcuna delle imprese che sta collaborando con l’Esposizione di Milano. Inizialmente lo spunto me lo aveva dato Francesco nella sezione commenti di un suo post, poi ho ricevuto altri input la mattina in ufficio, dove sono saltate fuori le storie più assurde. Ne stanno girando tante più o meno romanzate, per cui astraggo completamente da questa vicenda e faccio solo un paio di considerazioni estemporanee e del tutto generali.
Il livello medio di disoccupazione giovanile nel 2015 si aggira intorno al 43%.
Vi avviso subito. Parlare di bamboccioni = parlare di disoccupazione volontaria = è un problema del disoccupato, cioè un problema principalmente suo.
Rileggete con calma lo schema e le eguaglianze, così tutto diviene più semplice nell’interpretare l’eventuale orientamento (meramente politico) che può assumere la questione. Il nocciolo è tutto qui ed è banale, detto per chiunque si illuda che non esistono più la “destra” e la “sinistra” intese (in questo caso) come l’interesse contrapposto tra chi paga e chi lavora. Piatto e banale.
Dicevo: la mia è una considerazione generale, e prescinde da tutto. A me non interessa questo o quell’articolo di giornale, l’aneddoto o il singolo caso dell’amico di mio cugino che non ha voglia di fare niente, piuttosto che la storia del nipote viziato di zia Gertrude che non ha un’occupazione ma passa la giornata a giocare con lo smartphone da 750 euro.
La statistica e l’aneddotica sono due cose diverse. Mio cugggino non fa statistica.
Io guardo al dato medio nazionale di disoccupazione giovanile: 43%
Converrete con me che parlare di bamboccioni (e quindi porre l’accento sull’aspetto della disoccupazione volontaria) con questo tipo di percentuale è piuttosto ridicolo, a meno che voi non abbiate interesse a distorcere la realtà.
Faccio per dire: se voi foste un industriale intenzionato ad aprire lo stand in una fiera, potreste essere contenti di trovare un bellissimo contesto in cui è possibile pagare un tozzo di pane a quattro fanciulle laureate che parlano 3 lingue, dare la paghetta all’informatico che lavora a 400 euro mese per 12 ore al giorno, avvalervi del carpentiere extracomunitario, eccetera.
Ciò detto, credo che un giovane (ma anche un non-giovane) possa lavorare gratis per un periodo di tempo limitato.
Attenzione, in realtà nessuno lavora gratis nemmeno in questo caso perché ciò equivale a fare esperienza: significa investire su se stessi (imparo a fare l’idraulico, il carpentiere, l’elettricista, l’impiegato, eccetera). Normalmente questa cosa dovrebbe chiamarsi apprendistato o stage, che fa più figo. Non percepisco paga ma assimilo per poter poi rivendere una competenza acquisita.
Fuori da questa ottica dovremmo ricadere nel volontariato.
C’è però un problema: per poter accettare di essere sottopagati bisogna avere una rendita oppure essere mantenuti.
Per quanto tempo un giovane può lavorare gratis o percepire uno stipendio che non gli consenta di vivere? Io direi da un minimo di qualche settimana/mese ad un massimo di 3 anni.
Considerazione finale. Ma è possibile che con il 43% di disoccupazione giovanile dobbiamo ancora nasconderci e non dire che c’è un problema sistemico di grave emergenza nazionale? Stiamo ancora a parlare dei bimbominkia ?
Distorcere o banalizzare in questo modo un problema così grave significa di fatto legittimare l’attuale deflazione e avallare la fuga dei ragazzi all’estero. Significa far scomparire o far morire una società oppure lasciare che pian piano si carichi la molla della violenza.
Poi ok, ripeto: se chi mi legge è quel tipo di industriale che vuole arare il terreno dell’opinione pubblica per far accettare l’idea che lui possa basare la propria impresa sull’opera offerta dagli stagisti perché non è possibile delocalizzare tutto in Bangladesh, oppure chi mi legge è un politico e io debba convincermi che non esista un problema sistemico ma solo qualche ragazzotto un po’ pigro, allora mi taccio.